04 Maggio 2016

Effettività del modello di vigilanza 231/01 nell’attività bancaria ed esimente penale

Effettività del modello di vigilanza 231/01 nell’attività bancaria ed esimente penale

Come oramai noto, con l’emanazione del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, recante la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, il nostro legislatore ha oramai da tempo introdotto una normativa organica di notevole rilievo giuridico sul tema della responsabilità oggettiva delle persone giuridiche.

Da una prima e sintetica analisi della disciplina sembra evidente il richiamo agli interrogativi riguardanti la responsabilità, innanzi tutto penale, delle persone giuridiche, ed alla conseguente possibilità di sottoporre a sanzione gli illeciti riconducibili alle entità collettive, quali ad esempio le banche e gli intermediari finanziari, mediante misure di tipo afflittivo e preventivo, in un campo delicatissimo in cui profili di responsabilità penale, civile ed amministrativa sono fortemente uniti.

L’analisi dei numerosi interventi dottrinali e giurisprudenziali ci induce nuovamente a poter definire tale normativa come “una delle più importanti e profonde innovazioni del nostro sistema «sanzionatorio»” e come spunto interpretativo per il superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest, che viene confermato dai più recenti interventi legislativi, in particolar modo in materia bancaria (si veda ad esempio la normativa antiriciclaggio recentemente innovata con l’introduzione del nuovo reato di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter 1 del codice penale).

La commistione di differenti profili di responsabilità appare chiara già dalla intitolazione della norma, ove si afferma il carattere amministrativo della “nuova responsabilità”.

Tuttavia dalla lettura del testo si riscontra la mancanza degli elementi principali, tipici ed univoci della responsabilità amministrativa a fronte della presenza di quelli tipici della responsabilità penale, in quanto la responsabilità dell’ente viene accertata durante un processo penale, le sanzioni hanno natura preventiva, vengono applicati principi generali di diritto penale, la responsabilità dell’ente presenta caratteri di autonomia persistendo anche qualora non sia identificato l’autore materiale del reato o questi non sia imputabile o quando il reato si estingua per motivi diversi dall’amnistia.

L’ente dunque, pur non considerato formalmente quale autore diretto dell’illecito poiché il presupposto oggettivo della sua imputazione si trova nel fatto che il reato è commesso da parte di un soggetto legato funzionalmente alla società, viene direttamente investito della responsabilità del fatto.

L’introduzione di un nuovo modello di responsabilità, che dunque potremmo definire para-penale si è resa necessaria a causa dell’implementazione di forme di criminalità spesso aliene alle tradizionali forme di tutela rivolte al singolo individuo, dimostratesi dunque inadeguate sia in sede repressiva che preventiva.

Dunque gli strumenti penalistici indirizzati al singolo individuo sono apparsi sempre più inadeguati specialmente in relazione alla loro scarsa attitudine ad indurre l’ente collettivo alla prevenzione dei reati commessi nell’esercizio della propria attività economica ed a proprio vantaggio.

Ed è indubbio che uno dei settori in cui maggiormente si possono commettere i c.d. reati di impresa risulti essere quello bancario: su un duplice versante, civile e penale, risulta chiaro che, senza una struttura organizzata di impresa bancaria non sarebbero stati pensati e materialmente attuati determinati comportamenti illeciti: e proprio in relazione all’attività bancaria, per le forme con cui essa si esplica e per i diritti economico-patrimoniali individuali che va a gestire, il suo esercizio diviene il campo preferito per la commissione di reati, di rilevanza penale certo, ma che hanno avuto, hanno ed avranno un’indiscussa valenza individualistica per i danni sopportati dal soggetto leso dal comportamento criminoso, anche e specialmente in virtù delle più recenti innovazioni legislative.

Nell’esercizio dell’attività bancaria, l’aspetto penale e quello civile di un medesimo comportamento, si fondono in un unicum inscindibile.

Ricordiamo come il decreto preveda a carico dell’impresa una responsabilità amministrativa che si concretizza attraverso sanzioni rilevanti per la potenziale sopravvivenza dell’impresa sul mercato, come l’applicazione di un’ammenda fino ad un milione di euro, l’interdizione e la sospensione dell’attività, il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, l’esclusione da contributi, il divieto di pubblicità, la confisca e la pubblicazione della sentenza sfavorevole.

La difficoltà incontrata dal nostro legislatore si è concretizzata nella ricerca di una connessione tra una responsabilità di natura penale, propria dell’ente personificato, ed un unico “fatto di reato” non realizzato peraltro dall’ente bensì dalla persona fisica autrice, alla quale veniva imputata la responsabilità tipicamente penale: ciò si deduce chiaramente dall’analisi dell’art.5 del decreto in cui vengono evidenziati i due parametri di natura oggettiva e soggettiva, che devono essere presenti contemporaneamente per poter imputare all’ente la responsabilità del reato: a) i reati debbono essere commessi “nell’interesse o a vantaggio dell’ente” (parametro “oggettivo” di connessione tra un fatto di reato commesso dalla persona fisica e la persona giuridica) ; b) la rilevanza attribuita al rapporto organico con l’ente ed al  rapporto di subordinazione (parametro “soggettivo”, finalizzato e funzionalizzato a creare una particolare connessione tra l’ente e il terzo autore del reato, di modo da poter superare la posizione di evidente terzietà, o meglio di estraneità per l’ente).

Tale ultimo parametro risulta particolarmente rilevante ai fini della configurabilità della responsabilità dell’ente, poiché ove il fatto sia commesso da un  “soggetto apicale”  ne deriverebbe la responsabilità certa ed assoluta dell’ente, mentre se del fatto sia responsabile un soggetto legato ad esso da un rapporto di subordinazione , ne deriverebbe una responsabilità dell’ente di natura meramente colposa. Il decreto tuttavia offre come unica chance esimente la possibilità per le imprese e, dunque anche e specialmente per le banche, di dotarsi di un modello organizzativo in grado di prevenire la commissione di reati: tale scelta o elimina il rischio o comunque ne riduce la gravità sanzionatoria. Tale regolamentazione organizzativa interna appunto inquadrabile nel modello di vigilanza c.d. 231/01 sta trovando, recentemente, nuova linfa vitale, per più ordini di motivi.

Il primo è quello dell’introduzione del reato di autoriciclaggio di cui all’articolo 648 ter 1 del codice penale, ove la norma fa espresso riferimento all’eventuale attività o collaborazione nel riciclaggio posta in essere nell’esercizio di un’attività bancaria. Il secondo, si può rinvenire nella Circolare ABI – Serie Legale n. 6 – 1° dicembre 2015, ove si approfondisce l’opportunità ed anzi diremo la necessità di una implementazione dei modelli 231/01 da parte degli intermediari bancari, ove già esistenti, proprio in relazione al nuovo reato di autoricicilaggio. Ed infatti, la circolare si sofferma proprio sulla disposizione di chiusura dell’art. 648 ter 1, ove si prevede una circostanza aggravante allorché i fatti siano commessi nell’esercizio di attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale, altresì prevedendo una diminuzione rilevante di pena – fino alla metà – nel caso l’autore «si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto».

Altresì, è bene ricordare come l’art. 3 della L. n. 186 del 2014 ha poi inserito l’art. 648 ter 1 c.p. nel novero dei reati presupposto della responsabilità degli enti all’interno dell’art. 25 octies dedicato a riciclaggio e reimpiego.

Ora è chiaro per l’ABI, come sorga la necessità di implementare i controlli interni degli intermediari, e ciò anche al fine di poter usufruire della riduzione di pena come già indicata. Per far ciò, l’ABI sofferma decisamente la propria attenzione sull’origine del provento illecito: se esterna alla banca o se, invece, si sia in presenza di un utilizzo di proventi (eventualmente) illeciti formatisi all’interno della banca stessa. Nel primo caso, l’ABI evidenzia la possibilità di attingere utilmente, da parte delle banche, all’esperienza maturata in tema di obblighi antiriciclaggio ex D.Lgs. 231 del 2001 ove, seppur solo ai fini di detto decreto, all’art. 2 si dà una definizione di riciclaggio tale da coprire anche l’ipotesi di autoriciclaggio, nonché ai principi, alle regole ed alle procedure, già in essere in ambito aziendale, per prevenire il rischio di incorrere nella «responsabilità amministrativa» per la commissione dei reati ex artt. 648, 648 bis e 648 ter c.p.. Ove i proventi eventualmente illeciti si siano formati invece all’interno della stessa banca, le procedure e i princìpi di comportamento, già adottati per prevenire il rischio di commissione degli altri reati inseriti nell’elenco di quelli presupposto della responsabilità degli enti, dovranno implementare i controlli e le procedure. Ora, un problema che si pone nella quotidiana pratica di consulenza presso gli intermediari, è quello di analizzare se tali modelli di vigilanza possano definirsi semplicemente “sulla carta” ovvero siano dotati di reale efficacia dissuasiva. Troppo spesso infatti si notano modelli “scopiazzati” su internet, assolutamente non proporzionati alla reale attività bancaria svolta, i quali non prendono in considerazione i reali rischi a cui l’intermediario può essere assoggettato. Ed ancora si rileva una assoluta “ignoranza” (anzi meglio, non conoscenza) di tali modelli da parte della dipendenza tutta. Ebbene, come più volte da noi sostenuto, un modello del genere è assolutamente inutile ai fini della possibile applicazione dell’esimente penale e/o della riduzione della pena come prevista dall’art. 648 ter 1 del codice penale. Tali nostre deduzioni risultano confermate dall’analisi del terzo motivo della nostra riflessione, ovvero una recente sentenza della Corte di Cassazione del 17 marzo 2016 n. 11442 secondo cui sull’ente (e così anche sulle banche) incomberebbe l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Se ciò è oramai principio assodato, la Cassazione si sofferma sul principio di idoneità in concreto del modello 231 utilizzato, evidenziandone nello specifico le carenze, prevedendo esso solo misure  «sulla carta».

Ciò conferma che la composizione di un modello 231/01, o deve rispettare stridenti canoni realizzativi, ovvero potrebbe anche diventare una sorta di “boomerang” per l’impresa.