22 Febbraio 2016

“Ed alla fine arrivò la tanto attesa riforma delle BCC”
Introdotta con un decreto legge del 10 febbraio 2016 recante misure urgenti per la riforma delle Banche di Credito Cooperativo (BCC) e altre disposizioni urgenti per il settore del credito, la riforma racchiude in soli due articoli una rivoluzione che non è dato ancora sapere che impatto avrà sul piano pratico. Di certo sin dai primordi si era compreso come non si trattasse di un semplice intervento di natura economica ma di una svolta epocale con implicazioni importanti sul piano tecnico giuridico e soprattutto con un forte impatto a livello sociale poiché non si tratta semplicemente di trasformare una banca.
Con il decreto in commento si ridisegna un intero sistema bancario, tipizzato e fortemente radicato a livello territoriale e caratterizzato dal movente cooperativo che, non la rende equiparabile a nessun altro semplice tentativo di gestire una crisi di natura bancaria.
Per comprendere il livello di coerenza del legislatore, occorre partire dalla focalizzazione dell’obiettivo principale: individuare un modello organizzativo idoneo a superare le criticità affrontate da molte banche cooperative in questi anni, individuando forme tecniche che consentissero di incrementarne i livelli patrimoniali, di includere nuove forme operative nell’ottica di una diversificazione dei rischi e soprattutto che le rendesse compatibili con le nuove regole sulla liquidità, sulla dotazione di capitale e sulla governance introdotte a livello europeo.
“consolidare le banche del credito cooperativo, facendone uno dei gruppi bancari più solidi sul modello del Crédit Agricole”
Matteo Renzi, Editoriale “Dopo Natale riformeremo le banche del credito cooperativo”, pubblicato da Huffington Post del 6 dicembre 2015.
Lo stesso decreto in incipit ribadisce la finalità di rafforzamento della stabilità del sistema nel suo complesso, consistendo al contempo il rafforzamento patrimoniale delle BCC.
Se non era chiaro da subito quale fosse la scelta strutturale, era tuttavia apparso assodato e condiviso l’obiettivo di salvaguardare le caratteristiche culturali, operative e la vocazione locale delle BCC, valorizzando la loro capacità di saper trovare un’adeguata collocazione all’interno dei processi economici e sociali che si realizzano in determinati ambiti territoriali, il loro ruolo di sostegno ed impulso alla piccola e media impresa.
“La Banca d’Italia ha in più occasioni sottolineato l’esigenza per le BCC di perseguire forme di integrazione che consentano di continuare a sostenere territori e comunità locali preservando lo spirito mutualistico e mantenendo condizioni di sana e prudente gestione.”
Carmelo Barbagallo, Seminario istituzionale sulle tematiche relative alla riforma del settore delle banche di credito cooperativo.
Senato della Repubblica,
Roma, 15 ottobre 2015
Nel far ciò appariva dunque scontato che si tenesse conto della tipicità del fenomeno, dell’eterogeneità delle esperienze territoriali, del movente sociale e mutualistico, poiché per l’appunto si puntava a mutare un modello di fare banca.
Il gruppo bancario
Il legislatore fissa da subito un punto importate: obbligo per le BCC di aderire ad un gruppo bancario cooperativo che abbia una sua capogruppo. Si disegna dunque una soluzione strutturale volta a garantire contestualmente unità strategica ed operativa delle società del gruppo, da attuare, si spera nel rispetto dell’autonomia delle singole banche, nonché delle regole prudenziali che ne assicurano la stabilità. L’obbligatorietà dell’adesione è una condizione per il rilascio dell’autorizzazione necessaria che dunque lascia poche alternative alle Bcc, che a breve verranno approfondite. Particolare e inattesa, seppur prevedibile, è la configurazione giuridica della capogruppo, che allo scopo di poter accedere direttamente al mercato dei capitali, viene inquadrata come S.P.A con incisivi poteri di direzione e coordinamento.
Si badi bene, non una forma di società cooperativa che avrebbe permesso di non tralasciare la matrice mutualistica ma un’operazione che riecheggia la tecnica di riforma delle Popolari, che seppur hanno mantenuto le loro caratteristiche dimensionali ed operative, hanno finito per perdere il carattere di mutualità e territorialità.
Stando al dettato del nuovo art.37 bis, alla capogruppo spettano poteri di direzione e coordinamento, in modo da assicurare unità di indirizzo delle linee strategiche, corretti incentivi di governance, pieno sfruttamento delle sinergie di costo e di ricavo, nonché vaglio sulle componenti del gruppo, con la possibilità di attivare interventi preventivi atti a correggere rapidamente le criticità.
Nel caso delle BCC l’obiettivo della riforma deve essere quello di mantenere le peculiarità storiche di questa categoria affinché, anche in una prospettiva resa più complessa dalla nascita dei Meccanismi europei di Vigilanza e di Risoluzione, non sia messa in pericolo la funzione finora svolta di sano sostegno delle economie locali.
Barbagallo, Seminario istituzionale sulle tematiche relative alla riforma del settore delle banche di credito cooperativo, cit.
Ciò che al momento non è chiaro è il livello di incisività di tali poteri e soprattutto non è dato immaginare, viste le premesse del testo normativo, se l’esercizio sarà proporzionato alla complessiva situazione aziendale e gestionale delle singole banche.
Al terzo comma dell’art. 37 bis si scorge poi un ulteriore dettaglio: non si tratterebbe di un gruppo societario tradizionale in cui rapporti e responsabilità derivano da legami partecipativi, ma di un gruppo paritetico, caratterizzato da un legame di natura convenzionale i cui principali diritti ed obblighi delle parti derivano appunto da fonte contrattuale. Non si trascuri poi un ulteriore aspetto, che ha evocato e tutt’ora mostra dubbi di legittimità per violazione del principio di ‘equo trattamento giuridico’ tra tutti gli appartenenti al settore del credito. L’art. 37 bis, 1comma individua limiti quantitativi del capitale sia dei partecipanti sia della capogruppo che appaiono scarsamente compatibili con gli intenti iniziali, piuttosto aprendo una preoccupante prospettiva di intervento di soggetti estranei alla realtà cooperativa e restringendo il numero dei gruppi costituibili.
Ciò detto, aldilà della scelta della norma è chiaro che ciò nella pratica comporterà uno spostamento dell’epicentro del governo partecipativo dalla persona del socio alla capogruppo, con una serie di implicazioni sul piano pratico che lasciano irrisolti dubbi circa la possibilità per la Bcc di continuare ad operare con autonomia territorialmente come sin qui fatto. In tal senso, il progetto di autoriforma presentata dall’associazione di categoria non offriva migliori alternative: l’idea del gruppo unico era ugualmente destinata ad incidere negativamente sui profili partecipativi sociali e territoriali. Oggi la possibilità di un’unica capogruppo è quanto mai reale, con il rischio di un potere esercitato dalla stessa che trascuri gli interessi e le posizioni delle singole aderenti che finirebbero per essere subordinate all’interesse superindividuale facente capo alla prima.
Le realtà locali e l’alternativa
Per quanto riguarda le singole BCC, Al fine di favorirne la patrimonializzazione è stato elevato il limite massimo dell’investimento in azioni di una banca di credito cooperativo e il numero minimo dei soci.
Il limite minimo di capitale per costituire una società per azioni che esercita attività bancaria è di 10 milioni di euro.
Le Bcc che non intendono aderire ad un gruppo bancario, possono farlo a condizione che abbiano riserve di una entità consistente (almeno 200 milioni) e versi un’imposta straordinaria del 20 per cento sulle stesse riserve. Nel far ciò chiaramente non potrà continuare ad operare come banca di credito cooperativo dovendo deliberare la sua trasformazione in spa, come alternativa alla liquidazione.
In tutti i casi di trasformazione consentiti, la BCC è tenuta a devolvere il patrimonio, accumulato in regime di esenzione da imposta sui redditi, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Come chiarito anche dalla Corte costituzionale, la devoluzione evita che i vantaggi fiscali riservati alla cooperazione mutualistica vadano a beneficio di un’attività priva di questo carattere o siano fatti propri dai soci.
Al riguardo va ricordato che nell’ordinamento vigente le BCC sono configurate come cooperative a mutualità necessariamente prevalente, che possono trasformarsi solo in caso di fusione con banca di altra categoria e sempre che sussistano esigenze di stabilità e tutela dei creditori valutate dalla Banca d’Italia (art. 36 TUB).
Una tale scelta è di fatto ispirata all’esigenza di bilanciare la libertà d’iniziativa economica con la tutela della cooperazione mutualistica. Orbene, in una scelta del genere occorre valutare l’impatto che la norma avrà sui diritti dei soci e soprattutto cosa ne sarà della mutualità.
Che Vigilanza?
Un ultimo aspetto su cui concentrarsi è poi la conseguenza sul piano della vigilanza con una concorrenza della vigilanza consolidata e di quella sulle singole banche del gruppo, ricordando che qualora dovesse avverarsi il progetto del terzo unico gruppo bancario italiano, si farebbe capo al Meccanismo Unico di Vigilanza europea (qualora le dimensioni del totale attivo superasse la soglia di “significatività” dei 30 miliardi di euro).
Quali che siano i prossimi sviluppi è chiaro che tra tutte le scelte possibili, quella del legislatore italiano sembra aver subito troppo le influenze europee e l’ispirazione di modelli d’oltralpe che non possono però essere equiparati al sistema cooperativo italiano, giungendo ad un progetto frettoloso che, almeno in questo stadio, sembra proporre una soluzione fortemente contraddittoria rispetto alla logica partecipativa espressa dalla cooperazione di credito e alle numerose dichiarazioni d’intenti degli ultimi anni.
Non resta che affidarsi alle singole BCC confidando che optino per scelte più ragionevoli di quelle sino ad ora prospettate da chi, probabilmente, non ne conosce fino in fondo le infinite variabili.