10 Marzo 2016
Direttiva mutui: “patti chiari” e amicizia lunga?
Continua a colpi di pareri favorevoli e contrari la corsa verso la conversione dello schema di Decreto elaborato dal Governo al fine di recepire la Direttiva 2015/17/UE recante una disciplina rafforzativa dei diritti dei consumatori sul mercato dei mutui immobiliari residenziali.
Le questioni sul tavolo dibattimentale sono molteplici ed incrociano profili di legittimità e compatibilità con principi cardine del nostro ordinamento nonché valutazioni di opportunità circa il modo ed il tempo di compiere determinate scelte normative.
E’ chiaro che gli obblighi a cui espone l’appartenenza all’Europa impongano al legislatore un puntuale lavoro di recepimento tuttavia non può pretendersi di innestare impianti pensati altrove che rischiano di generare crisi di rigetto – giuridiche e sociali- al solo scopo di dimostrare di aver svolto tempestivamente i compiti a casa. Ciò tanto più se, come nel caso di specie, si tratti di una Direttiva c.d. “a livello minimo di armonizzazione” che lascia dunque la possibilità agli Stati membri di mantenere eventuali misure nazionali, già esistenti (o di introdurne di nuove) che siano maggiormente tutelanti per i consumatori, introducendo di fatto un obbligo in termini di risultato da sviluppare intorno al perimetro operativo dell’art. 3.
Nel caso de quo la dinamica negoziale che fa da sfondo è, come è ormai noto, un finanziamento nella forma del contratto di mutuo per la compravendita immobiliare ad uso residenziale tra due parti giuridicamente squilibrate: una più forte, il professionista , ed una più debole, il consumatore ossia quella persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività professionale e faccia accesso al credito per acquisire le risorse necessarie a compiere un atto di acquisto.
Il contesto è sicuramente peculiare poiché l’emananda normativa, allo scopo dichiarato di tutelare il contraente debole, decide di rimediare ad un vuoto sino ad ora generato dall’assenza di una disciplina che presidi un’operazione complessa come quella di un mutuo immobiliare concluso da un cliente consumatore. Il decreto dunque dovrebbe stabilire una serie di regole atte a riequilibrare la disparità di forza contrattuale così come fa la direttiva madre che detta regole di comportamento tese a rafforzare il livello di conoscenza e consapevolezza del consumatore, traducibili nella predisposizione di oneri informativi, di assistenza e di consulenza nonché mediante l’imposizione, in capo agli intermediari, di precisi obblighi organizzativi. Nel prevedere un tale meccanismo, la Direttiva sfrutta un approccio molto in voga nella normativa di matrice finanziaria, che negli ultimi anni sta puntando sull’evoluzione del modello organizzativo dell’intermediario quale presidio ab origine di trasparenza e correttezza della relazione con la clientela.
Orbene la lettura del decreto e degli atti della riflessione e dibattimento che si sono sviluppati intorno pone seri dubbi circa la percezione reale della portata della direttiva stessa, la consapevolezza (nel legislatore) del livello di educazione finanziaria dei consumatori italiani, del grado di percezione dell’attuale contesto economico e sociale. Voce a parte meriterebbe il livello di conoscenza dell’operatività quotidiana del settore bancario nonché il senso di realtà sulle effettive possibilità rimediali della tutela del singolo.
Velocemente è bene ricordare che il punto focale ruoti intorno alla possibilità che, in caso di inadempimento del debitore, il finanziatore possa evitare la procedura esecutiva giudiziale attualmente prevista ed impossessarsi del bene – oggetto di garanzia – al fine di soddisfare il proprio interesse creditorio. La discussione chiaramente richiama immediatamente l’antica questione dei patti ammessi nel nostro ordinamento, ove è chiaramente vietato dal codice civile in c.d. patto commissorio (che si sostanzia nel meccanismo previsto dal decreto) e tollerato, seppur non tipizzato, il c.d. patto marciano. Il discrimen di liceità scorrerebbe sul filo dell’entità economica del sacrifico sofferto dal debitore laddove il divieto dei patti commissori nasce proprio dall’esigenza di evitare che il debitore, vista la situazione di subordinazione (anche psicologica) in cui grava, possa essere indotto a disporre del proprio bene con sacrificio patrimoniale ingiustificato.
Dibatte dunque la VI Commissione Finanza su quanto Marciano o Commissorio possa essere il sistema del decreto, interrogandosi altresì se il rango legislativo dello strumento utilizzato sia idoneo ad intervenire con una tale incisività. Le implicazioni giuridiche che ne derivano sono molteplici ed ulteriori rispetto a quelle richiamate dagli interlocutori ma ciò che si intende sottolineare in questa sede è piuttosto l’inidoneità palese delle scelte messe in campo dal legislatore italiano per il raggiungimento del fine apparentemente – si badi bene – dichiarato.
Padoan nel corso dell’interrogazione parlamentare del 9 marzo 2016 ha enunciato i seguenti dati sulle esecuzioni immobiliari giudiziarie degli ultimi tre anni:
“71.535 nel 2013,
68.400 nel 2014
55.860 nel 2015″.
Si aggiunga che chiaramente non può sfuggire il peso che, sul sistema italiano, il concomitante (ed attualissimo) tema delle sofferenze bancarie e la gestione delle procedure esecutive né quanto si sia sempre più inclini a disegnare modelli e regole sulla carta senza aver il minimo senso della realtà.
Venendo alla diatriba sul provvedimento, chi giustifica la bontà del provvedimento ritiene che la natura negoziale della previsione sia più che mai rafforzativa della tutela del consumatore poiché costituendo oggetto di apposita pattuizione indurrebbe il consumatore ad una effettiva consapevolezza.
Orbene ciò è di quanto più di lontano dalla realtà vi possa essere: a causa delle modalità con cui si sviluppa la dinamica negoziale, dell’assenza di avvedutezza e cultura finanziaria nel consumatore, della situazione di “dipendenza” circa l’esito della pratica di mutuo che induce il contraente debole a sottoscrivere ed accettare qualsiasi condizione, dell’assenza di rimedi sanzionatori seri che possano dissuadere le condotte scorrette, dalla latitanza della vigilanza quando si tratta di intervenire nei rapporti tra le parti e nelle relazioni con il cliente. E l’assenza di senso della realtà lo confermano le soluzioni proposte che, ex multis, si riportano a seguire.
C’è chi infatti, al fine di limitare i rischi connessi al meccanismo del decreto, propone di
“predisporre un atto di disposizione espresso e separato, da parte del consumatore, per la vendita, ovvero per il trasferimento del bene immobile; in assenza di tale atto, la banca non potrà acquisire il bene o venderlo, dovendo quindi ricorrere alle ordinarie procedure di esecuzione giudiziale.”
Nell’epoca dei contratti conclusi per adesione e mediante moduli e formulari la possibilità che l’atto in questione sia predisposto e presentato dal consumatore è inverosimile. La disposizione verrebbe regolarmente elusa dalla prassi di atto creati e stampati dall’intermediario e semplicemente sottoscritti dal consumatore, il quale, non deve sfuggire, già normalmente “ non legge e non si informa” e che all’atto del sovraindebitamento versa in uno stato di incapacità di valutare gli effetti delle proprie scelte a lungo termine. L’esperienza racconta infatti di consumatori che, stressati dalla posizione debitoria, si sono disfatti di abitazione e fonte di reddito, ad esempio vendendo la propria licenza o cedendo la propria azienda con la conseguenza di passare da uno stato di povertà temporanea ad una situazione indigenza irreversibile.
“Provveda il Governo a emanare un atto di normativa secondaria …per assicurare adeguata tutela ai diritti dei consumatori e garantire che il debitore sia pienamente avvertito e consapevole del contenuto dell’accordo “
Al legislatore sfugge ancora una volta l’operatività quotidiana. L’esempio della affine disciplina sul Credito ai consumatori è lampante: a sei anni dall’entrata in vigore della nuova normativa, non si è mai chiarito come dovesse essere utilizzato il modulo denominato Informativa Europea di base sul Credito ai consumatori, pensato dalla legge per offrire un’informativa precontrattuale in tempo utile ad una scelta consapevole e tradottasi in un modello A4 stampato, firmato e non letto all’atto di sottoscrizione del contratto quando ormai, il dado è tratto.
“Specificare che il finanziatore non può condizionare l’erogazione del mutuo all’inserimento nel contratto di credito della clausola di cui al comma 3 dell’articolo120-quinquiesdecies”.
Qui basta ricordare che ad oggi non si è ancora riusciti, nonostante il fuoco incrociato della normativa, a far rispettare il divieto di subordinare la richiesta di un banale finanziamento all’apertura di un conto corrente o alla stipula di una polizza assicurativa, circostanze peraltro entrambe espressamente richiamate dal Codice del consumo e ritualmente disattese.
« Il finanziatore adotta procedure per gestire i rapporti con i consumatori in difficoltà nei pagamenti», a stabilire che l’adozione, da parte della Banca d’Italia, di disposizioni di attuazione in materia, costituisce un obbligo e non una mera facoltà”.
Viene da chiedersi se il legislatore in tal caso stia pensando alla prassi – nefasta e tollerata – di imporre al cliente procedure di gestione delle esposizioni debitorie attraverso la sottoscrizione di nuovi mutui a tassi svantaggiosi e sulla base di un merito creditizio deteriorato al solo fine di ripianare il debito con il medesimo istituto, o al fallimento della procedura della legge 3/2012 che sì avrebbe potuto rappresentare un’occasione di tutela e vicinanza al consumatore indebitato.
“Valuti il Governo l’opportunità di inserire in tale ambito un esplicito riferimento alla consultazione di una banca dati creditizia al fine della corretta valutazione del merito creditizio, informando immediatamente e gratuitamente il consumatore del risultato della consultazione e degli estremi della banca dati consultata, nonché chiarendo al riguardo che tale consultazione non determina di per sé il rifiuto della domanda di credito in quanto le informazioni in esse contenute possono esprimere solo la probabilità di inadempimento del debitore”.
Sul punto occorre rammentare che tale ipotesi è già inserita nel nostro ordinamento proprio con la citata normativa del Credito ai consumatori che appunto impone agli intermediari, prima dell’erogazione, di valutare il merito creditizio astenendosi dal perfezionamento qualora l’esito di consultazione delle banche dati sia negativo. Ci si sarebbe aspettati dunque per una operazione come un mutuo immobiliare uno sforzo maggiore, se non altro, non peggiorativo di livelli di tutela già noti all’ordinamento nazionale.
Si aggiunga poi un ulteriore profilo: quello della fiducia dei consumatori e lo si rapporti alla rete di rapporti che giornalmente si atteggiano diversamente a seconda della tipologia di modello bancario a cui si fa riferimento. Colosso finanziario o piccola banca territoriale che sia c’è da domandarsi se la fretta di recuperare risorse “per far bella figura” valga il rischio della definitiva rottura di una relazioni banca-cliente” già gravemente in crisi.
In conclusione dunque, e ribadendo come gli spunti di riflessione sin qui evocati siano marginali e residuali rispetto alla molteplicità di questioni giuridiche che il testo in commento comporta, desta molti dubbi la convinzione con cui si insiste sulla portata protezionistica del decreto e sulle argomentazioni poste a sostegno della stessa.
Nell’attesa dunque di conoscere il risultato finale può tornare utile richiamare alla mente Jeremy Bentham, che in uno scritto di fine settecento affermava come “preoccupazione del legislatore deve essere il bene della collettività: l’utilità generale deve costituire il criterio orientativo in materia di legislazione. Conoscere il bene che giovi agli interessi della comunità, è scienza; ricercare i mezzi per realizzare questo bene, è arte.”
Anche per questo Decreto in fondo, la speranza è l’ultima a morire.