04 Dicembre 2020

D.LGS. 231/01 E “CAPORALATO DIGITALE”: IL CASO UBER CONFERMA LA NECESSITA’ DEL MOGC

D.LGS. 231/01 E “CAPORALATO DIGITALE”: IL CASO UBER CONFERMA LA NECESSITA’ DEL MOGC

Il pm di Milano Paolo Storari ha chiuso le indagini per caporalato sui rider per le consegne di cibo a domicilio e reati fiscali, indagini che, il 29 maggio, avevano portato il Tribunale a disporre, con un provvedimento mai preso prima nei confronti di una piattaforma di delivery: il commissariamento di Uber Italy, filiale del ‘colosso’ americano.
Secondo l’accusa i riders venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione sia per quanto riguarda la retribuzione che il trattamento di lavoro. I riders, inoltre, ” venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”: il reato che si contesta all’organizzazione è quello di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, previsto dall’articolo 603-bis del Codice penale.
Trattasi di uno dei reati presupposto di responsabilità amministrativa dell’Ente, contenuto nell’articolo 25-quinquies del D.lgs. 231/2001 “Delitti contro la personalità individuale” in cui si rinviene, anche, la particolarità del «concorso» in/di altre fattispecie criminose, come l’omicidio colposo, le lesioni gravi o gravissime, l’impiego di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno, le violazioni (in generale) in tema di salute e sicurezza. Le imprese utilizzatrici di mano d’opera, quindi, non hanno di che stare tranquille su questo fronte. Se è vero che le regole di sicurezza sul lavoro, più volte spiegate dalla dottrina e soprattutto dalla giurisprudenza, sono state – sin dagli albori della normativa sui reati d’impresa – già trascurate nei modelli MOGC, appare oggi più che mai necessario rimodulare cultura e strumenti per prevenire anche queste ormai vecchie fattispecie criminose. Forse sulla troppo poca considerazione di questi reati hanno inciso idee negazioniste del fenomeno della «schiavitù» in generale, pensando, in “buona fede”, che essa fosse non attuabile in una democrazia liberale come la nostra.
È indispensabile, quindi, un nuovo approccio al decreto legislativo sulla responsabilità amministrativa di enti e società, che non va più visto come onere ma come opportunità per passare a un vero sistema di controllo interno integrato.
A più di venti anni dall’introduzione nel nostro ordinamento di una forma di responsabilità amministrativa delle società e degli enti per gli illeciti penali commessi dai propri amministratori e dipendenti nell’interesse delle stesse, si impone sul tema una riflessione più ampia. In effetti, la necessità di creare modelli organizzativi per evitare l’applicazione di sanzioni in relazione a comportamenti illeciti sempre più comuni (quali i reati connessi con la sicurezza del lavoro) è stata interpretata dalle imprese e dagli enti interessati solo in modo negativo quale ulteriore adempimento con conseguente aggravio di costi e responsabilità di cui se ne poteva fare certamente a meno. Questo modo di interpretare la normativa ha portato le stesse società a creare modelli organizzativi “di facciata” attraverso la predisposizione di meri presidi documentali senza vedere in questi alcuna utilità diretta sul piano gestionale e strategico.
Lo ha capito bene anche il legislatore nazionale che, soltanto nel Luglio 2018, ha presentato una proposta di legge che rende obbligatoria l’adozione del MOGC per tutte le società che superino per tre esercizi consecutivi determinate soglie patrimoniali: la proposta, fatta al Senato, deve ancora essere esaminata ma trattasi di un buon punto di partenza per porre nel nostro ordinamento giuridico basi ancora più solide perché si sviluppi una cultura della legalità d’impresa e della prevenzione di ogni stortura e abuso dell’iniziativa economica sia privata che pubblica.

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